Nei ricordi ancora vivi tra meno giovani di Rocca di Papa, una volta terminata la raccolta l’uva veniva messa nelle botti, pigiata con i piedi e lasciata qualche giorno a “ribollire”. In tutto questo tempo il mosto del vino rosso veniva affondato più volte, con un ramo che terminava con tre rametti che sporgevano di pochi centimetri. Per il bianco invece era sufficiente compiere l’operazione una sola volta.
Era poi il vignaiolo esperto a decidere quando svinare, dopo aver assaggiato il mosto da un recipiente di vetro, sorta di piccolo bicchiere legato a un lungo bastone. E quando gli sembrava che il vino era maturato, inseriva una caula (cavola) forata di rame nella botte per far uscire il vino filtrato in una tinozza di legno. Con un mastello di legno, quel buon liquido veniva poi travasato negli stessi bigonci utilizzati in precedenza per trasportare l’uva nelle cantine e in questa sistemazione il vino continuava la sua maturazione, finché veniva travasato in una botte, messa in orizzontale, dove sarebbe rimasto a riposare ancora altro tempo.
Molti altri dettagli arricchiscono la vivace descrizione che – sul numero 4-2020 della rivista “Castelli Romani” – Rita Gatta fa del processo della vinificazione destinato a completarsi mesi più tardi con il consumo del vino soprattutto nelle bettole e nelle fraschette locali; una descrizione efficace, da cui sembra emanare l’odore acre del mosto e del vino non ancora maturo. Momento di grande aggregazione sociale, usanza tipica di tutto il territorio castellano.